A Cartoceto, nel cuore dei rilievi pesaresi, riposa il laboratorio enogastronomico di Lucio Pompili.
Filosofo dei prodotti biologici, frutto della propria terra e del proprio sudore.
In una cornice straordinaria.
Nel capitare nei pressi di Fano, raramente viene spontaneo pensare di addentrarsi sui colli marchigiani, distratti dall’azzurro spensierato dell’Adriatico.
Un errore imperdonabile, a cui è necessario porre rimedio.
Immerso nel verde dei primi rilievi appenninici, a una ventina di minuti dal casello autostradale, si erge il mondo di Lucio Pompili, filosofo del vivere (e mangiare) genuino ed autarchico.
Cacciatore di lungo corso, dall’Uzbekistan alla Mongolia, ha costruito negli anni una cucina a chilometri zero, in grado di esaltare sapori dimenticati, conferendo loro una linfa nuova.
Siamo a Cartoceto, paesino di una volta, incorniciato tra vigneti ed ulivi, prolifici di buon vino ed olio prodigioso.
Non appena si varca la soglia del Symposium, si ricomincia a respirare.
Gli orti, le serre, i polli, i maiali e le piante di cui sopra, tutto di propria produzione.
Biologicamente, passionalmente.

Ci si accomoda in un salone accogliente, informale, arricchito da caldi tappeti e da una cucina ad isola, “The Kitchen”, attorno alla quale si può mangiare i prodotti della terra, conversando amabilmente, nella maniera cara a Platone.
L’alternativa è una stanza più elegante, ma sempre nello stile pompiliesco, dunque capace di mettere chiunque a proprio agio.
Nel periodo estivo non manca una favolosa terrazza, dove si pranza e cena in compagnia della brezza del mare, che si staglia sullo sfondo e risale le dolci pendici appenniniche, per entrarti nei polmoni e fermarsi al cuore.
Il menu è legato alle stagioni ed alla disponibilità del momento; la carne è il padrone di casa (“perché si pensa che le Marche siano solo pesce, ma abbiamo tante altre eccellenze”, ricorda lo chef).
Quindi i salumi misti ed il pane casereccio, con un goccio d’olio d’oliva, per partire, seguiti dalla frittatina agli asparagi; poi i primi: riso integrale ai funghi di bosco, pappardelle di patate fatte in casa, con sugo di cinghiale e capriolo, ravioli al formaggio fresco, con fave e piselli.
Sarebbe sufficiente per essere incantati (e satolli), ma ecco che arriva il re del banchetto.
Il maiale selvatico, a braccetto con un flan di spinaci ed una purea di patate. Tenero e gustoso, selvaggio di nome, ma addomesticato di fatto, decisamente la portata migliore.
Infine una dolce chiusura, piacevole, ma non memorabile.
Il vino era Sconosciuto, di nome e di fatto, nel senso di un sangiovese di propria produzione (ovviamente), ben equilibrato rispetto ai piatti corposi, ma mai pesanti.
Il pranzo ha contemplato una necessaria sosta a bordo piscina, all’ombra di un ulivo, su di un comodo divanetto, ideale per raggiungere il nirvana ed abbioccarsi in men che non si dica.

Il conto, comprensivo di sei portate, una bottiglia di Sconosciuto del 2010, acqua, coperto e caffè, era intorno ai 100 euro a testa.
Rapporto qualità/prezzo tutto sommato accettabile.
Un’esperienza da vivere.





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