Stefano Cucchi si è picchiato e non curato da solo, secondo la Corte d’Appello.
Sua sorella Ilaria, dopo anni di lotta contro l’ingiustizia dello Stato, piange amaramente.
Ed accetta un ruolo da inviata per una tramissione su una rete pubblica.
Ciò che è avvenuto a Stefano Cucchi riporta l’Italia indietro di quasi un secolo.
Sempre che sia avvenuto, dal momento che la sentenza della Corte d’Appello del 31 ottobre, ha assolto tutti gli imputati, per insufficienza di prove.
Dall’iniziale accusa di pestaggio, nelle camere di sicurezza del tribunale, e successiva trascuratezza, da parte dei medici dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, che lo dovevano curare, si era arrivati alla più ridimensionata “malnutrizione e sciatteria”, a parere dei giudici della III Corte d’Assise, nel processo in primo grado.
Poi tutti a casa, non è successo nulla.
Cucchi si è picchiato e non curato da solo.

Di certo era deperito (pesava 43 kg, quando fu fermato; 37, una settimana dopo, quando morì), già di suo.
Era in possesso di numerose dosi di hashish e cocaina, in quella oscura notte di metà ottobre 2009.
E questo è un fatto.
Illegale. Deprecabile.
Ma non è nemmeno lontanamente accettabile, in un paese, all’apparenza liberale, ciò che (pare) sia accaduto in seguito.
Invece di una tutela del cittadino, un’abnorme, ingiustificata prevaricazione, nei suoi confronti.
Fosse una novità, si dirà.
Di episodi di abuso di potere ve ne sono fin troppi.
In questo caso, però, subentra la paura, il disorientamento. L’assenza di punti di riferimento.
Che un reato minore, quale che sia, possa trasformarsi in una condanna a morte, che chi ti dovrebbe proteggere, ti aggredisca.
Tremendo ed incomprensibile.
Vengono meno i diritti, sovrastati dalla prepotenza e dalla violenza.
Un’incomprensione che diventa disgusto, se si rovescia la medaglia.
Per cinque lunghi anni, la sorella di Stefano, Ilaria, ha urlato, graffiato, combattuto, per salvaguardare la memoria e la giustizia, in questa triste vicenda.
Alla lettura dell’ultima sentenza, è scoppiata in un pianto amaro.
Forse c’è ancora qualche barlume di speranza, in sede giudiziaria, per rivalersi degli assassini e per opporsi a questo Stato tiranno.
Anche se la luce appare sempre più fioca.
Poi la chiamata di Rai Tre: un ruolo da inviata nella trasmissione “Questioni di Famiglia”, che si occupa di racconti e testimonianze in ambito familiare.
Che lei accetta.
E così, la trentottenne di bella presenza, è passata da amministratice di condominio a giornalista televisiva (non del tutto a suo agio, nella prima puntata, a dire il vero), su una rete pubblica.
Stipendiata dallo Stato, ovviamente.
Incomprensione e disgusto.
C’è qualcosa di terribilmente marcio, in questo paese.





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