A quasi sei anni dal terremoto dell’Aquila, una piccola riflessione sull’esperienza vissuta nel capoluogo abruzzese.
E’ trascorso molto tempo, dallo scatto di queste fotografie.
E l’emozione non si placa, nonostante tutto.
Lunedì prossimo sarà il sesto anniversario del terremoto in Abruzzo.

Tre anni fa sono stato a L’Aquila, nel centro storico. Il silenzio era assordante. Nel camminare, intimorito ed inorridito dalla solitudine che mi circondava, ogni pochi passi mi soffermavo ad osservare una città morta; le abitazioni erano tutte abbandonate, le vetrine dei negozi distrutte e perfino le banche, storicamente il simbolo del potere, completamente sventrate. Non si contavano gli edifici sorretti da travi e con quintali di impalcature intorno, che, con una piccola, impercettibile vibrazione potrebbero ridursi in polvere.
Certamente i minuti (anche se a me sono parsi secoli) trascorsi tra le vie aquilane non mi possono aver fornito una conoscenza tale di questa città da poter parlare senza peccare di superficialità, ma cercando di attenermi ai fatti, a quel poco che abbia visto, sono certo che nessuna parola sia più forte di un’immagine, di un sospiro o di un’emozione provata in quei luoghi.

I cantieri immobili (anche se era sera, non c’era traccia di un qualsiasi effettivo lavoro diurno), le stradine laterali alle arterie principali sbarrate dalle transenne e totalmente buie, le rose cosparse accanto ai palazzi divelti, a ricordare chi, nella notte del 6 aprile del 2009, è rimasto lì, sepolto mentre dormiva.

Molti i militari a presidiare la zona, quasi come se L’Aquila fosse una nuova Baghdad (o Pompei), lacerata dalle macerie e dimenticata da tutti.
Già, il ricordo.
Poco o nulla sembrava essere cambiato, ma di certo una differenza si notava, nitidamente, dalle prime settimane post-terremoto: erano sparite le telecamere.
Come spesso accade in queste occasioni, l’attenzione mediatica è andata rapidamente scemando, nei mesi seguenti al sisma ed alle proclamazioni trionfalistiche ed autarchiche dei governanti; seriamente impegnati, a sentir loro, nel ricostruire al meglio la città, arricchendola oltretutto di un fondamentale G8, che ha procurato più disagi che altro.
Non se ne parla più e tutti si convincono che si stia ripartendo, che le promesse siano state mantenute.
Per quel che avessi visto allora, nulla di tutto ciò.

Nell’andare via, nell’allontanarmi da quell’incubo tragicamente reale, ho attraversato Piazza Duomo, o quel che ne restava.
C’era un bar, uno dei pochissimi punti di ritrovo del centro storico attivi ed aperti, da cui proveniva sommessamente “Blowin’ in the wind”, di Bob Dylan; c’erano tanti ragazzi, alcuni mangiavano un gelato, altri ridevano, altri ancora si baciavano, come se ci trovassimo al centro di un magnifico scatto di Robert Doisneau.
Tutto era morto, ma tutto era vivo, in fondo.
O viceversa.






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