LOST IN AMBITION


Pensieri, sogni, esperienze e sprazzi di bellezza.

La passerella d’onore

3–4 minuti

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Gli applausi del Barcellona e le lacrime di Pirlo.

Una serata di grande calcio, culminata con il “pasillo de honor”, che certifica la maestosità catalana ed il ritorno della Juventus nell’élite europea.

Hanno vinto giustamente i migliori, mentre ai degni avversari, alla fine, è stato concesso l’onore delle armi.

 

Tutto si riduce ad un gesto.
Il “pasillo de honor”, la passerella d’onore.
I vincitori, disposti su due file, ad applaudire e stringere la mano agli sconfitti.
Mai, in una finale di Champions, il Barcellona aveva riservato tale omaggio, ai propri avversari.
Nemmeno al Manchester United del leggendario Sir Alex Ferguson, battuto dalla maestosa filarmonica di Guardiola per ben due volte in tre anni.

Pasillo de Honor
Pasillo de Honor

I pronostici sono stati rispettati. I più forti hanno, meritatamente, vinto.
Dopo aver eliminato, lungo il proprio percorso, i campioni d’Inghilterra, di Francia, di Germania ed, infine, d’Italia, in carica.
Con ferocia e delicatezza.
Ossimori conniventi, quando si parla di questa squadra.
Una delle più forti degli ultimi vent’anni e destinata a dominare in Europa ancora per molto, considerando la giovane età media ed una cantera in grado di sfornare ogni anno nuovi talenti.
Non fosse stato per le preghiere di Buffon, ancora uno dei migliori portieri al mondo, se mai fosse in discussione, il risultato di Berlino sarebbe stato senza dubbio più categorico.
Iniesta, danzando sull’erba, ha incarnato omeriche gesta in mezzo al campo, mentre Neymar ballava la samba e Suarez mordeva il pallone (in assenza di Chiellini); i polmoni di Rakitic e gli inserimenti di Dani Alves, di supporto.
Una rapsodia blaugrana, coordinata dal sergente Luis Enrique (che, a fine gara, ha amabilmente salutato la dirigenza ed i tifosi romanisti, che lo avevano cacciato con infamia, un paio d’anni fa), abile a gestire uno spogliatoio non semplice ed a trovare un prezioso equilibrio in campo.
Messi, nel frattempo, vagava da mezzala.
Lontano dal gioco, all’apparenza.
Mai così vicino all’azione, in realtà.
Come ha magistralmente sottolineato Paolo Condò, «il terrore che si respira, quando parte in serpentina in area, è lo stesso dei cristiani nell’arena, quando la grata si alzava ed usciva il leone».
Pura ispirazione.
La Juventus, dal canto suo, ha fatto il massimo.
Nervi e cuore, fino all’ultimo minuto.
Sopravvissuta agli assalti nemici, come spesso è accaduto, lungo il cammino europeo, ha risposto con Morata, creando una piccola breccia nel muro di Ter Stegen.
Il tiro al volo di un Tevez non in grande serata, poco dopo, avrebbe potuto raccontare un epilogo differente, ma gli dei del calcio hanno preferito ristabilire l’ordine e le giuste gerarchie.
La coppa è stata affidata a Xavi, suo legittimo padrone, nell’ultima cavalcata con la casacca blaugrana.
L’annata bianconera si è chiusa, in definitiva, con uno scudetto vinto con un mese di anticipo, la decima coppa Italia in bacheca ed una Champions League combattuta sino alle fine, contro una formazione da considerarsi incostituzionale, tale ne è la forza e la poesia.
Non poi così male, per una società ricostruita da zero, cinque anni fa, e per una squadra sotto l’egida di un allenatore intelligente e preparato, alla prova dei fatti, accolto da sdegno ed insulti, dalla maggioranza dei propri, lungimiranti tifosi, a luglio del 2014.
Con un fatturato in costante crescita (superiore ai 320 milioni di euro), un remunerativo e sempre esaurito stadio di proprietà ed una rosa ancora più competitiva, nei piani di mercato, in ottica futura, i presupposti per confermarsi tra i primi otto club europei ci sono tutti.
Puntando dritto alla finale di Milano, del maggio venturo.
Anche in rappresentanza delle inevitabilmente assenti squadre di casa.
Per il momento, restano solo le lacrime di Pirlo.
E gli applausi catalani.

 

Il pianto di Pirlo
Il pianto di Pirlo

 

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